“Premiare un regista significa premiare una fatica – esordisce Joseph Peaquin –. Ottenere un riconoscimento vuol dire che il proprio lavoro è stato apprezzato e ciò è senza dubbio rassicurante”. Questa sensazione Peaquin la conosce bene. Documentarista valdostano di fama internazionale, Peaquin è il vincitore della scorsa edizione di Sondrio Festival con il suo lavoro “In un altro mondo”, e quest’anno siederà di diritto tra le fila della prestigiosa Giuria Internazionale. “Non è la prima volta che mi trovo a ricoprire un ruolo simile, ma si tratta sempre di un momento importante e di grande responsabilità”. L’autore del film classificatosi primo alla manifestazione del 2010 è quindi pronto a tornare in Valle nella veste di “Giurato”. “Sondrio e Aosta – città d’origine del regista – hanno molto in comune e non è difficile tracciare delle analogie. Anzitutto si tratta di città medio-piccole collocate in montagna. Si vive molto bene, c’è un gran senso della comunità e ci si sente protetti”.
Un uomo polivalente Joseph Peaquin, la cui passione per l’immagine affonda le radici nella preadolescenza. “Intorno agli undici anni cominciai a risparmiare per comprarmi il primo videoregistratore. L’interesse per le immagini mi portò a studiare Comunicazione a Grenoble e con gli anni capii che la mia strada era indirizzata verso il genere del documentario. Cominciai presto a lavorare con le immagini nell’ambito della comunicazione ma mi accorsi che ambiente e professione erano troppo incentrati sull’uso della tecnologia più che sui contenuti, al punto da essere quasi autoreferenziali”. C’è chi dice che in Italia non c’è una vera e propria “cultura del documentario” e Peaquin condivide tale posizione. “Nel nostro Paese non esiste questo tipo di cultura, eppure c’è una nutrita storia di documentaristi italiani che, non venendo riconosciuti in Italia, sono costretti a lavorare all’estero. E finchè non c’è un vero mercato del documentario non potrà nemmeno esserci una vera cultura”.
“Lo spettatore di documentari – prosegue il regista – ha senza dubbio uno sguardo più attivo e critico rispetto a quello dei film tradizionali e da un punto di vista democratico la sua proiezione dovrebbe essere un servizio offerto dalla televisione pubblica”. Realizzare un documentario non è certo cosa semplice, ci vogliono mesi, a volte anni e in Italia i finanziamenti provengono perlopiù dall’Unione Europea ed Enti locali. “La cosa importante è riuscire a dare una propria impronta al lavoro cercando di restare fedeli alle persone e alle situazioni riprese”. Ma qual è il filo conduttore delle opere di Peaquin? “Nei miei documentari l’audio-ambiente ha un ruolo predominante. Ci dirigiamo infatti verso una nuova era – rivela il regista -, quella della profusione dell’immagine, un’era in cui l’impazzare ovunque di figure significa non vedere più nulla, mentre per tornare a dare un senso all’immagine è necessario recuperare l’audio reale e cominciare a sentire la realtà”. In un’epoca in cui le immagini dettano legge, e la loro spettacolarizzazione sembra quasi d’obbligo Peaquin ci riporta alla realtà, vera essenza del suo lavoro. L’anima del paesaggio e di chi lo abita è infatti il fulcro di “In un altro mondo”. “Molto spesso nei documentari si tende ad enfatizzare le immagini, ma nella realtà la montagna è molto dura, e bisogna saperne apprezzare tutti gli aspetti, persino quelli di attesa, pause e silenzi compresi”.